Turalija, Ivana.
(2016).
Alcuni aspetti pragmatici e sociolinguistici de La gita a Tindari di Andrea Camilleri e della sua traduzione croata.
Diploma Thesis. Filozofski fakultet u Zagrebu, Department of Italian Language and Literature.
[mentor Filipin, Nada].
Abstract
Tradurre un’opera rispettando contemporaneamente lo stile dell’autore e il contesto culturale della lingua di partenza risulta essere un obiettivo quasi impossibile da realizzare, soprattutto se l’opera in questione è scritta in dialetto o comunque in una varietà diversa dalla lingua standard, come nel caso dei romanzi di Camilleri. Se il traduttore decide che lo skopos della sua traduzione è quello di rispettare e trasmettere lo stile dell’autore nella lingua d’arrivo, il bagaglio culturale che ogni lingua e, rispettivamente, ogni dialetto sottintende potrebbe diventare secondario. Il traduttore croato ha cercato di dare al lettore croatofono la possibilità di percepire lo stile plurilingue dell’originale, sostituendo le varietà siciliane con quelle icavo-ciacave della Dalmazia, e mantenendo il croato standard laddove nel testo originale vi è l’italiano standard. In questo modo si è in un certo senso mantenuto anche quel caratteristico fascino mediterraneo che le due varietà hanno in comune. Particolarmente felice è la traduzione delle battute di quei personaggi che si esprimono esclusivamente in dialetto (la portinaia, la vedova Lo Mascolo, Arturo Zotta, Balduccio Sinagra), ma il traduttore è riuscito soprattutto nell’avvicinamento del personaggio di Agatino Catarella al lettore croatofono, conservando la sua caratteristica aria “burocratica”, buffa, incomprensibile e nello stesso tempo così simpatica. Ciò che a volte ostacola la lettura della versione tradotta non sono quindi le parole dialettali, bensì gli arcaismi a cui il traduttore spesso ricorre per accentuare il pastiche linguistico e soprattutto le traduzioni ad litteram di modi di dire, collocazioni e frasi fatte che non possono essere rese nella lingua d’arrivo con questo approccio. La sostituzione del “vigatese” con un dialetto croato è problematica in quanto quello di Camilleri non è un vero e proprio dialetto o una varietà che si usa nel quotidiano, e quindi non si dovrebbe rendere con un unico dialetto neanche nella lingua d’arrivo, soprattutto perché in croato tutti i dialetti hanno una forte connotazione stereotipata. Che la parlata caicava dello Zagorje, del Prigorje e del Međimurje venga utilizzata dai poco istruiti e dai contadini è in Croazia un luogo comune abbastanza diffuso, accanto a quello che la parlata icavo-ciacava della Dalmazia sia soprattutto una lingua dei “pigri e flemmatici meridionali”. Questa stigmatizzazione linguistica rende ogni traduzione in dialetto ancora più azzardata. D’altra parte, se la traduzione croata dei romanzi di Camilleri fosse stata effettuata in lingua standard, come lettori non avremmo avuto la possibilità di percepire, almeno parzialmente, lo stile e la particolarità dell’espressione dell’autore.
Possiamo concludere che in una traduzione è veramente difficile conciliare i due criteri, quello di fedeltà allo stile dell’autore e al contenuto dell’opera, e quello di fedeltà al contesto geografico e culturale del testo di partenza. Ciò non vuol dire che una buona traduzione deve per forza sottintendere tutte e due le “fedeltàˮ, soprattutto perché nella maggioranza dei casi è impossibile riuscirci, ma che bisogna, come traduttori, trovare una strategia per superare le comodità di una traduzione basata sul già menzionato “trapianto” del materiale linguistico. Se posso permettermi un giudizio personale da lettore, una buona traduzione è quella che riesce a suscitare le stesse emozioni del testo originale – che fa ridere laddove anche l’originale fa ridere, che fa riflettere laddove anche il testo originale lo fa, che fa piangere laddove l’originale riesce a provocare la stessa reazione. In conclusione, a parte tutte le strategie, tecniche e teorie traduttive, una buona traduzione è quella di cui, leggendola, il lettore non si rende conto.
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